Questi sono giorni in cui il pensiero mi riporta a tredici anni fa, quando fui incaricato dalla curia a prendermi cura, in qualità d’infermiere, dell’Arcivescovo Alessandro Maria Gottardi.
Prima di allora quest’uomo l’avevo incontrato nella sua residenza estiva in Val di Sella (Valsugana) quando, piccolo, mi aveva tenuto sulle sue ginocchia come fa un nonno con il nipotino. Poi l’ho rivisto in occasione della mia cresima e, di tanto in tanto, in Duomo durante le solenni celebrazioni liturgiche.
Un volto, il suo, che mi ha accompagnato fin dall’infanzia. Una presenza che però mi trasmetteva soggezione, austerità e timore; questo fino a quando la sua malattia mi ha dato modo di rincontrarlo e di stargli vicino negli ultimi tre anni della sua vita, fino alla morte (2001). In questo tempo entrambi ci siamo conosciuti, svelati ed io, di mons. Gottardi, ho toccato con mano la sua grande saggezza e umanità.
Dentro a quest’uomo austero, si nascondeva un cuore di bambino, aperto alla meraviglia, con lo sguardo rivolto al presente e al futuro come se gli appartenesse per altri cent’anni, ma con la libertà di chi sa ed è pronto a lasciare ogni cosa e ad uscire di scena in ogni momento. Nonostante vecchiaia e malattia l’avessero privato del contatto con la sua gente, nel suo vivere di tutti i giorni, la solitudine non era motivo di angoscia né di disperazione e per i pochi che gli sono stati vicino fino alla fine (signora Elena, don Sergio, don Cornelio, don Luciano e altri ancora) era evidente che la sua, era una solitudine abitata da Dio e quindi, proprio per questo, vissuta come dono.
Anche nel suo morire circondato dai seminaristi, alcuni dei quali oggi sacerdoti, ha testimoniato che il suo vivere è stato Cristo e il suo morire gli avrebbe aperto gli occhi su colui per il quale ha vissuto come sacerdote, come pastore, ma soprattutto come uomo di Dio. Questo è il ricordo che ho di lui.