Vorrei cercare di chiarire qui la mia critica di fondo al sistema sanitario trentino che lo vede in molti aspetti, soprattutto organizzativi e programmatici, oltre che “politici”, spesi in senso amministrativo nell’utilizzo delle risorse, come un sistema autoreferenziale, che fa riferimento esclusivamente a se stesso, trascurando o perdendo ogni rapporto con la realtà esterna e la complessità dei problemi cha lo caratterizzano e, cosa ancor più grave, inibendo il dialogo con i propri operatori, sacrificandolo sull’altare del potere degli “esperti”.
Questi dovrebbero mettere la propria conoscenza a servizio degli altri ma, le enormi risorse che impieghiamo, come singoli e collettivamente, per i servizi sanitari dentro questo sistema autoreferenziale, fa del contributo di dirigenti e amministratori un pericoloso potere a doppio taglio, accompagnandosi di fatto a una sistematica tacitazione degli operatori in prima linea, disabilitandoli proprio in ciò che saprebbero dare nella loro professione, con esiti disastrosi capaci di trasformare un servizio ai cittadini in un disservizio.
A mo’ di esempio e per dare il giusto peso a un pensiero che esprimo a partire dalla mia professione infermieristica, porto l’ultimo caso che mi ha visto costretto a rispondere al dott. Claudio Ramponi del dipartimento dell’Emergenza, che non ha gradito le parole contenute nella mia interrogazione su quanto accaduto all’ospedale Santa Chiara, a una persona in fase terminale, giovane papà, ricoverato presso il Pronto Soccorso, accolto in Osservazione Breve in una stanza da quattro, separato dagli altri tre pazienti, tutti peraltro in buone condizioni, da una tendina di tela arancione semitrasparente. La mia domanda è stata ritenuta offensiva e «una mancanza di rispetto nei confronti del personale del reparto che lavora con grande professionalità e dedizione».
Il mio intervento ha piuttosto voluto portare all’attenzione della politica il fatto che la retorica pomposa di una supposta riorganizzazione sanitaria, nasconde l’ansia di costruire un nuovo ospedale dal costo esorbitante di centinaia di milioni di euro e ci scopre incapaci di predisporre spazi idonei per i pazienti che vivono il dramma del “fine vita”. Un problema reale che lo stesso dott. Ramponi ha implicitamente riconosciuto con la sua reazione alla mia critica verso una «struttura sanitaria così disumanamente disorganizzata». Ammetto che spesso sono piuttosto impetuoso, e questo lo addebito esclusivamente al mio carattere, ma la mia intenzione più sincera è quella di ricercare una comunicazione consapevole, empatica e costruttiva, e mi spiace di non esserci riuscito con il dott. Ramponi.
Rimango convinto però che la psicologia dell’assistenza ai malati terminali del nostro sistema sanitario, da tempo a confronto con pratiche terapeutiche “alternative” e saperi diversi, possa esprimersi con modalità più adeguate di un formale e inconsistente rispetto della privacy di una tendina semitrasparente. Vorrei una progettazione partecipata della nostra sanità, soprattutto a livello di operatori, i veri esperti esistenziali dei loro problemi, poiché, se li hanno, li conoscono bene. Il dirigente o l’amministratore alla ricerca di una soluzione, si assicurerebbe la collaborazione di persone con punti di vista molto diversi dai propri. Una pluralità di menti arricchisce i processi progettuali garantendo una pluralità di soluzioni proposte. Ciò avviene tuttavia solo se nessuno si sentirà intimidito e rimarrà quindi in silenzio, per evitare l’umiliazione di non venir preso sul serio, una situazione che si riscontra purtroppo dentro alla nostra Sanità gestita in modo autorevole, ma non partecipativo.
È questo il mio obiettivo politico: individuare soluzioni condivise, “volute” in primis da chi vi è coinvolto, perché “tengano” nel tempo senza bisogno di strumenti di controllo poliziesco.
Cons. Claudio Cia
La lettera sul quotidiano “l’Adige” del 9 gennaio 2017: